La sera scorsa, non era poi così tardi in fondo, rientrando a piedi verso casa, mi sono imbattuto in una tenue e imprevista foschia, tramutata via via, in un attimo e senza quasi averne la percezione, in una nebbia fitta.
Mi trovavo da solo per quella strada lunga e anche troppo silenziosa, e di questo ne ero fin troppo consapevole. Il buio, seppur non ancora pesto, ma minaccioso, fosco, e opacizzato da quella densa parete di fumo e vapore, mi aveva totalmente avvolto. A stento distinguevo lo scalpitio dei miei passi, confuso dal timore, più assurdo che razionale, per quella insolita situazione.
Quel cielo di cobalto trasfigurava come un senso di profonda inquietudine… eppure desideravo tanto avere la mia fotocamera con me, per incidere su un fotogramma la metafora di quel momento.
Ero solo. D’improvviso, davanti a me, una goffa silhouette aveva preso forma, dai contorni sempre più marcati. Sbigottito, mi fermai a osservare (o almeno, ci provavo).
L’ombra di un bambino, di sicuro più spaventato di me, mi si scagliava contro. Rassicuratolo, lo salutai.
Che foto sarebbe stata, pensai tra me e me! D’altronde, nella suspense di quell’attimo, la scena me l’ero già, in qualche modo, premunita, e forse la stavo anche aspettando.
Perdonatemi questa “ouverture” quasi da romanzo crepuscolare di inizio Novecento… ma cos’è la fotografia se non anche l’interpretazione delle nostre più profonde e nascoste emozioni?
Tutta colpa del prof. Luciano Modonutto, sostenitore entusiasta e ospite abituale del nostro Circolo fotografico, che durante l’incontro di martedì 26 febbraio ci ha posto questa domanda, che mi è risuonata nel buio di quella serata: “Voi, cosa ci vedete in quella scena?”. Niente, io avevo solo paura, e proprio quella avevo visto. E voi? Che cosa ci avreste visto?
È vero, lo ammetto... Ho avuto la presunzione di associare a quella “mancata” fotografia un contenuto angosciante, persino simbolico. Il mio obiettivo, come asserirebbe il professore, sarebbe stata una foto “connotativa”, capace di sintonizzarsi appieno con l’emotività di quell’attimo. Una certa “retorica visuale” scaturirebbe allora oltre la cornice di quell’immagine.
Lo sapevate? I poeti del Simbolismo francese ritenevano che la natura fosse una “foresta di simboli”, un mondo intero fatto di enigmi che solo il “poeta” aveva la possibilità, e la responsabilità, di interpretare.
Secondo voi, il fotografo, con i suoi scatti ben congegnati, ragionati, che trascendono la realtà con la sua personale narrazione in chiave metaforica, è un “poeta” o un “enigmista”?
Forse questa è soltanto la mia audace, ma innocente provocazione, rivolta al professore, il quale ringrazio, come sempre, per questa consueta, miscellanea iniezione di fantasia creativa e critica fotografica, somministrata a tutti i soci del Circolo presenti all’evento.
Autore: Matteo Pivotto